Tags

Related Posts

Share This

Castelverrino

 

Castelverrino, che nel catalogo normanno dei baroni nel XII secolo è chiamato Castelluczum, è uno di quei borghi in cui ci vai solo perché hai deciso di andarci. Avevo deciso di andarci appena dopo Capodanno. Era di sabato e vi sono arrivato passando per Pietrabbondante. Si fa una via tutta in discesa che attraversa i luoghi di Ortovecchio (il cui toponimo di origine osca, secondo gli eruditi, attesterebbe una antica sacralità del sito) e della chiesa quasi eremitica dedicata a S. Vincenzo Ferreri dal capo fiammeggiante (che è molto venerato in zona anche se, secondo me, si è sostituito nel culto più antico per S. Vincenzo di Saragozza).

All’improvviso ci si immette su una superstrada sulla quale si innesta una ripida stradina che si fa fatica a percorrere con l’auto. Nonostante si veda che tutte le case sono ben tenute, immediatamente si ha l’impressione che il paese sia totalmente disabitato. Lascio la macchina su un ridottissimo spiazzo. Mi inerpico per una serie di vicoli dove, se allarghi le braccia, ti sembra ti toccare le pareti delle case che si fronteggiano. Paese pulitissimo. Ancora più pulito per il silenzio incredibile che si infila in un supportico dove alcune sedie di paglia attendono di essere usate per la quotidiana assemblea di un piccolissimo vicinato.

Passando per quelsupportico si entra in una delle piazze più deliziose del Molise. Su uno spazio di non più di un centinaio di metri quadrati si apre il portale del palazzotto baronale, che una volta fu il castello dei dalla Posta, dei Cantelmo, dei Sancia, dei Carafa e dei Pagano, e che fu totalmente trasformato nell’Ottocento post-unitario. Attaccata ad esso una torre circolare angioina. E’ l’ultima rimasta del sistema di difesa castellano, con la parte apicale troncata per fare da terrazza.

Due piccolissime feritoie settecentesche, utili una volta per sparare anche con un fucile, oggiricordano che questi palazzotti, finite le contese feudali, si attrezzarono per difendersi dai briganti.

Le altre cortine di case impediscono qualsiasi possibilità di affaccio sul vallone del Verrino e sul territorio circostante. Ciò contribuisce a definire quello spazio come luogo degli sguardi anche se i soliti infissi in alluminio fanno rimpiangere le antiche finestre in legno. Ma il campanile, quadrato nel suo impianto e con l’accesso diretto sulla piazzetta, sembra tirarsi fuori del perimetro per allungarsi su due registri e permettere così alle campane di essere la voce più alta del paese, anche più di quella del castello. Questo campanile, secondo la tradizione longobarda, non è attaccato alla chiesa, ma ne costituisce il riferimento sicuro per ricordare a tutti che i titolari di quel luogo (cosa abbastanza insolita) sono i santi apostoli Simone e Giuda Taddeo.

Osservando la sua facciata ottocentesca ed il suo portale neoclassico del 1870, con il timpano arricchito da metope e triglifi, mi sembra di capire che il muro che la collega al campanile è opera più recente e che una volta il campanile era quasi al centro dello spazio pubblico.

Cerco inutilmente di entrare. Per trovare le chiavi scendo nella parte bassa del paese dove si trova la piazza nuova. Tutto chiuso. Sulla facciata dell’Ufficio postale, che una volta era il Municipio, le pietre marmoree con il lungo elenco dei giovani che andarono a morire lontano dal paese per difendere l’Italia. Finalmente vedo sbucare da un vicolo un signore che mi accompagna da Nicolino, l’anziano custode della chiesa. In quel piccolo tratto di via in salita ha il tempo di dirmi che una volta nel paese c’era il bar e la macelleria, ma da qualche anno non vale più la pena di tenerli aperti. Non vi sono più giovani a Castelverrino. Nicolino mi scruta con attenzione per capire le mie intenzioni. Gli dico che sono originario di Capracotta e che mio nonno faceva i mattoni a S. Pietro Avellana, così decide di consentirmi la visita alla chiesa. Salendo mi spiega che il parroco vive in Agnone e deve provvedere a più parrocchie del territorio e che egli si sente orgoglioso di fare da sagrestano volontario per tenere in vita l’ultima anima del paese. I giovani hanno altri interessi.

L’interno è particolare. Si direbbe una chiesa a pianta centrale, ma a tre navate. Chi impiantò la costruzione sembra che abbia ragionato in funzione delle statue dei santi, seguendo la rigida logica bizantina secondo cui più volte è rappresentato il simulacro del sacro, più volte il sacro è presente attraverso il suo simulacro. Sull’altare centrale le nicchie di S. Rocco e di Maria Vergine. Ma un nuovo S. Rocco è su un altro altare. Nella navata di destra la statua di S. Lucia, ma nella navata di sinistra un’altra S. Lucia. Nicolino mi spiega che la seconda è S. Lucia d’inverno, perché viene portata giù all’antico villaggio che ancora porta il suo nome per la processione di dicembre. E poi S. Vincenzo Ferreri con il capo fiammeggiante e la sua regola nella mano sinistra. In una nicchia S. Michele Arcangelo calpesta il diavolo e quasi di fronte la Madonna Addolorata sta nel suo abito nero con il cuore trafitto. Dall’altra parte la Madonna della Libera è ferma nel suo abito bianco mentre mostra ai fedeli le mani aperte segnate da una croce. Non manca l’antico organo che si intravede sulla cantoria sorretta da due bellissime colonne di legno a torciglione, decorate da viticci e convolvoli che meriterebbero un accurato restauro.

Mentre ritorno alla macchina incontro un signore del posto che mi chiede se sono l’assessore di Castelverrino. Capisco che qui è difficile anche comporre un’amministrazione comunale e che c’é un assessore esterno che non è del paese. Poi scopro che è un mio amico che vive a Isernia, anche lui con la barba. Gli telefono immediatamente per raccontargli dell’equivoco e riprendo la via di casa scendendo per una tortuosa strada che porta alla chiesa di S. Lucia. Si innesta sulla fondovalle del Verrino con la quale si arriva comodamente a Sprondasino il cui antico castello mostra i suoi ruderi a chi passa per il grande viadotto della Trignina.