Tags
Related Posts
Share This
Cerro a Volturno
Nello stemma di Cerro a Volturno vi è un maiale che sta di profilo sotto una grande quercia. Uno stemma che racchiude una serie di elementi che non possono essere ricondotti solo al fatto che il cerro è la pianta che produce le ghiande. E le ghiande sono notoriamente il cibo per i maiali. Credo che la presenza del maiale significhi qualcosa di più. E se anche non fosse vero, mi piace pensarlo. Cerro è ad un tiro di schioppo dall’Abbazia di S. Vincenzo ed è risaputo che gli abati di quel monastero trascrivevano su appositi libelli i termini per la concessione delle terre ai propri coloni. Quei contratti, che perciò si chiamarono “a livello”, stabilivano la percentuale di denaro o di cose (in genere la decima parte) che dovevano essere annualmente versate all’abbazia. Una delle decime più ricorrenti era quella della consegna di un porco per ogni dieci porci che il colono allevava e di cui poteva disporre. Ed il porco era uno dei capitali più preziosi nell’economia di quel territorio.
Un po’ alla volta tutto il territorio dell’Alta valle del Volturno si popolò di coloni e di famiglie che volsero a coltura territori impervi e vallate abbandonate. Decine di molini ad acqua sorsero lungo le riàine del Volturno, centinaia di nuclei agricoli si organizzarono sulle coste di ruvide montagne, migliaia di murature a secco impedirono alla terra di scendere a valle e la coltura dell’olivo, della vite, del frumento, che mille anni prima i Romani avevano avviato, disegnarono di nuovo il paesaggio di questa parte della penisola italiana. Così nacquero i paesi dell’Alta Valle del Volturno.
In questo contesto ha inizio della storia del nucleo di Cerro, quando, nell’anno 989, l’abate Roffredo registrò su un libello il contratto di concessione dei terreni che venivano dati ai fratelli Giovanni ed Audoaldo figli di Venero, a Grimoaldo figlio di Martino, a Salomone figlio di Perto, a Domenico, presbitero, figlio di Saxo e ad Urso figlio di Giovanni ed altri.
A parte il dovere delle tasse, ebbero il diritto a difendersi con un castello e ne costruirono uno in forma quadrata. Scelsero una grande roccia dove impiantarlo e dal nome della pianta più forte e potente in quel territorio si chiamò Castello del Cerro: Castrum Cerri.
In realtà Cerro originariamente era costituito da due nuclei che ancora fanno capo a due chiese: quella di S. Maria Assunta nella parte alta vicino al castello e quella di S. Pietro Apostolo in quella bassa. Probabilmente all’epoca di Roberto d’Angiò, nel 1325, questa seconda chiesa fu ampliata e si costituì una unificazione dei due borghi con la realizzazione di una cinta muraria munita di torri circolari che dal castello arrivava fin sulla sponda del sottostante rio. Alcune di queste torri, inglobate in edifici che vi si sono sovrapposti, si riconoscono sul lato orientale del nucleo.
Nel tempo l’abbazia decadde ed in queste terre, di nuovo abbandonate, comparvero i Pandone. Di essi qualche cronaca ricorda un loro progenitore longobardo che si era guadagnato il soprannome dimarefais: il rapace! Acquistarono ed usurparono le terre di S. Vincenzo e gli stemmi della casata fecero bella mostra nel palazzotto che Camillo Pandone fece costruire sul luogo dell’antico monastero. In quel palazzo passò gli ultimi giorni di vita Lucrezia di Capua, sua moglie, e da quel palazzo il giovane Federico si sognava signore potente delle Terre del Volturno.
Appena erede del padre, ai primi del Cinquecento, Federico ebbe fama nel regno soprattutto per la sua vita dispendiosa. Lo conobbe Ferdinando il Cattolico che pubblicamente si meravigliò non poco per il fasto del suo abbigliamento. Un cronista del suo secolo, qualche decennio più tardi, annotava che era suo desiderio crearsi una corona di castelli a chiusura del territorio che aveva in potere: “Diede principio ad un castello in una terra sua chiamata Cerro, che era a capo della Baronìa, e con la dolcezza dello edificare e con la borrea di havere una fortezza di opra inespugnabile, cominciò ad impegnare et vendere castella e per finirsi di rovinarsi, pigliò impresa di edificare monasteri et altre fabriche, così con queste spese crebbero i debiti tanto che bastarono a spogliarlo di tutti i dodici castella“.
Era ancora ricco e potente quando si innamorò della bellissima Ippolita d’Afflitto e la loro unione in matrimonio fu occasione mondana per richiamare nella Valle del Volturno personaggi di rango delle rispettive famiglie. Lungo le strade, popolani malamente abbigliati videro sfilare dame e cavalieri dai costumi variopinti. E all’avvenimento non mancarono i fiduciari che Federico aveva nel suo territorio ed anche da Fornelli, che era in suo possesso, vennero, riccamente abbigliati, ad ossequiare il potente padrone.
La nuova moda rinascimentale, dalle preziose stoffe variopinte e dai ricchi gioielli, fece così una rapida e frastornante apparizione tra i vicoli del paese prima di sparire tra le mura del Castello dove la festa proseguì allietata dalle note della pavana. Dalle finestre e dalle travi delle sale scesero i drappi bianchi e gialli dei Pandone mentre gli stemmi degli ospiti, per la gioia effimera dei conviviali, ornavano vistosi pasticci coperti di zucchero.
Al tramonto la festa finì e, come voleva la tradizione, Ippolita e Federico si ritirarono nelle loro stanze dove rimasero chiusi per tre giorni.
Di Ippolita e Federico, per la storia, rimane solo un ricordo sbiadito, ma forse nel castello di Cerro i loro fantasmi ancora si raccontano un gioioso futuro che ancora stanno sognando.
Un altro ricordo di Federico sarebbe rimasto nel convento di S. Maria di Loreto che egli fece edificare nel 1510 fuori del paese, sulla strada che porta ad Acquaviva. Ma del convento ormai sopravvive nella boscaglia solo qualche rudere e fra qualche anno anche di questo edificio non rimarrà nulla.