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Isernia

Camminando per i vicoli di Isernia alla ricerca di qualche segnale che aiuti a capire come si sia formato il suo originario nucleo urbano qualcuno si chiederà perché mai un vicolo è dedicato a Giobbe. Se si prova a chiedere in giro nessuno saprà rispondere, ma se si entra nella Cattedrale si capirà il perché.

Isernia è città di origine italica e come tutte le città italiche fu conquistata dai romani che immediatamente vi trasferirono i culti per le loro divinità. Isernia nel 263 avanti Cristo divenne una colonia romana affidata a coloni latini che, nel punto dominante della nuova città, edificarono un grande tempio dedicato a Giove. Le sue basi ed il grandioso podio furono poi utilizzati dai cristiani che, sul luogo dedicato alla più importante delle divinità romane, costruirono una cattedrale intitolata a San Pietro, primo successore di Cristo. Ma il tempio latino non aveva l’ingresso come oggi verso la piazza del Mercato. Tanto si capisce dalle strutture sotterranee che sono tornate alla luce e dalle grandi cornici a gola rovescia che si ritrovano non interrotte sotto il portale di oggi. Alle sue celle si accedeva originariamente da una grande scalinata che era sistemata nella parte opposta all’attuale ingresso, proprio all’altezza di quel vicolo che ancora è dedicato a quel Giobbe che non è altro che la trasformazione dell’originario termine latino di Jovis. Il vico di Giobbe, dunque, è l’antica via di Giove, attraverso la quale si arrivava al grande tempio dedicato alla triade capitolina: Giove, Giunone e Minerva.

Sede di cattedra vescovile dal V secolo, la basilica di San Pietro per Isernia ha sempre rappresentato il centro simbolico della sua storia ed il riferimento fisico nel lungo e travagliato sviluppo urbano, conservando in ogni tempo il carattere e la funzione di luogo sacro per la città. Così fu pure all’epoca dell’abate cassinese Desiderio e del vescovo Pietro di Ravenna che da Montecassino venne a reggere la chiesa isernina alla metà dell’XI secolo. Fu Pietro di Ravenna che ricostruì la Cattedrale dalle fondamenta utilizzando gli stessi moduli armonici applicati nelle tante basiliche desideriane ed invertendo la direzione del tempio nel porre il nuovo ingresso verso il Mercato e le tre absidi, di cui rimangono solo le basi sotto il pavimento del presbiterio, verso il vico di Giove.

I terremoti, le guerre, l’insidia del tempo e l’incuria degli uomini hanno spesso messo in crisi questo insigne monumento, che è sempre risorto. Anche dopo lunghi anni di scavi archeologici che comunque hanno aiutato a capire la sua storia e la sua importanza.

E scavando scavando si sono liberati anche alcuni ambienti sotterranei che, destinati una volta a raccogliere i resti mortali di vescovi e chierici in attesa del Giudizio di Dio, ora sono divenuti luoghi di suggestivo raccoglimento. In uno di essi sta immobile l’immagine antica, forse trecentesca, della Madonna del Piede, che deriva il suo nome dalla chiesa rupestre i cui resti ancora sopravvivono in agro di Longano. E’ un’immagine lignea straordinaria che Ada Trombetta osservò come una sarta avrebbe osservato una madre-regina dopo averle cucito il più bello degli abiti: “Rivela una delicatezza d’espressione ed uno slancio della figura ottenute scolpendo un busto sottile e portato leggermente indietro, un abito che scivola elegantemente sul corpo, un drappeggio del mantello che fascia quasi le spalle e poi le ginocchia, formando pieghe morbide e a larghe pause. Parte di queste sono state lavorate separatamente su pannelli e solo in un secondo momento avvitate al blocco con tale perizia da non farli sembrare aggiunti. La Madonna siede su un trono senza spalliera, inciso a disegno geometrico, solleva le braccia per benedire e reggere Gesù, poggiato sul suo grembo, ma proteso in avanti con movimento insolito, ardito e disinvolto. Tutto è gotico in essa dall’impianto generale ai più piccoli particolari, che si colgono ancora nel velo corto che le copre la testa e ricade con i capelli sciolti ai lati del collo flessuoso, nel viso ovale, negli occhi oblunghi, nelle labbra piccole e nelle dita affusolate. Il leggero strabismo nello sguardo crea ieraticità, il sorriso misterioso dolcezza infinita; l’abito lento non nasconde le forme femminili e lascia intravedere i seni, segnati esteriormente da due fiorellini”.

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Isernia è ancora viva nel suo centro antico. Anzi forse proprio la sua particolare conformazione è stata la sua salvezza.

Al suo interno meriterebbe più attenzione la fontana della Fraterna, una delle più belle fontane italiane, che nasconde nelle sue splendide proporzioni federiciane l’applicazione di moduli armonici di origine pitagorica. Il tutto utilizzando pezzi di architetture e sepolcri romani sapientemente composti alternando vuoti e pieni secondo uno schema che il lapicida tracciò come un appunto su una delle lastre perché solo l’osservatore più attento potesse percepirle. Ed è una fortuna per la storia di Isernia che il Municipio sia rimasto nella parte meno accessibile dalle automobili che, comunque, con la connivenza degli amministratori, riescono a raggiungere la piccola piazza che appartiene anche alla contigua chiesa di S. Francesco. Anzi, il Municipio di Isernia si identifica fisicamente con il convento del santo di Assisi da quando, dopo le riforme murattiane, i francescani ne furono spossessati dopo la sua demanializzazione.

La chiesa di S. Francesco (che gli Isernini, però, amano chiamare di S. Antonio per un grande cappellone che gli è dedicato all’interno e che è una vera e propria chiesa nella chiesa) si sovrappone ad una più antica chiesa dedicata a S. Stefano e, sebbene abbia un bell’interno barocco, la sua costruzione risale al XIV secolo, quando fu realizzata la sua facciata rettangolare nella quale si apriva un unico portale.

Un centro antico che si anima soprattutto in occasione dei suoi mercati e delle sue feste tradizionali ed in particolare il 29 settembre quando le vie ed i vicoli vengono invasi da pellegrini, suonatori di zampogne, bande musicali che seguono i portatori delle reliquie di S. Cosma e S. Damiano che si venerano sulla collina che sta dall’altra parte della valle del Carpino.

Oggi andare al santuario di San Cosma non costa più fatica. E poi, una volta arrivati, parcheggi su parcheggi possono accogliere centinaia di vetture nella speranza di ridurre la confusione che inevitabilmente ogni anno, il giorno della festa, ravviva tutta la sua collina. A San Cosma si viene ancora come si veniva una volta, anche da lontano, perché egli, insieme a San Damiano, non è santo solo degli isernini. Quando si avvicinano gli ultimi giorni di settembre gruppi di pellegrini festanti arrivano dai territori vicini a ricordare, pur non conoscendo le loro imprese, che i due santi erano medici che hanno continuato a guarire ammalati anche diciassette secoli dopo il loro martirio. Una volta si veniva solo a piedi o al massimo a dorso di mulo, scendendo per l’erto sentiero che, partendo dallo slargo dei Cappuccini, passa davanti all’immagine di una matrona romana che, però, tutti chiamano “la Madonnella”. E così certamente venne da Napoli Augustino Beltrano quando fu chiamato a completare gli affreschi di Agostino Pussé, verso la metà del Seicento, forse già con il cuore gonfio di gelosia per la moglie Dianella verso la quale rivolgeva troppe attenzioni il suo maestro Massimo Stanzione, il più grande degli artisti napoletani di quell’epoca. Una gelosia che finì in tragedia omicida qualche anno più tardi.

E mentre pensava anche alle sue cose, Augustino terminava uno dei più completi cicli di rappresentazioni delle vite e dei miracoli dei taumaturghi orientali venerati a Isernia come se quei medici santi avessero sempre operato su quella collina. Tutt’intorno, ambientati all’epoca delle persecuzioni di Diocleziano, si sviluppano gli episodi che resero celebri in tutto il bacino mediterraneo le capacità miracolose di Cosma e Damiano. Nel primo riquadro a sinistra sono i tre momenti significativi del martirio, tutti compresi in un’unica scena nel palazzo dell’imperatore che è seduto sul trono in una sala dalla quale, attraverso una loggia balaustrata, si gode la visione del mare e di una rupe. Sulla sinistra Diocleziano è seduto su un sedile imperiale con decorazioni zoomorfe sottostante un baldacchino violaceo con tenda annodata. Egli ha un copricapo all’orientale e regge uno scettro con la mano sinistra. Sotto il mantello si scorge la corazza con spalline leonine. A destra sono i due santi che indicano con una mano il cielo e con l’altra la terra, mentre sullo sfondo sono altri personaggi. Ancora più a destra, oltre la balaustra della loggia, si apre una prospettiva sul mare e sullo sfondo è rappresentata l’esecuzione della sentenza di condanna. I due santi, con tunica verde, sono lanciati in acqua con le mani legate da catene. In primo piano, invece, Cosma e Damiano vengono tirati fuori dal mare da un angelo in volo, con tunica bianca e mantello rosso, che lascia cadere le catene spezzate.

Il quadro appresso rappresenta l’esecuzione di altri martirii con la scena ambientata su una pubblica piazza fuori del palazzo imperiale. Si riconosce sulla sinistra un tempietto circolare con una divinità pagana all’interno, mentre sulla destra è il grande palazzo dell’imperatore che assiste alla scena stando seduto con il solito scettro nella mano sinistra. In primo piano è la scena del martirio con i soldati che reggono gli attrezzi per l’esecuzione mentre a terra sono distesi i corpi di due santi. Al centro due personaggi che pregano mentre divampano le fiamme di un rogo. A destra un soldato è a cavallo mentre il popolo assiste controllato da altri soldati. Sullo sfondo, dietro una parata di lance, un paesaggio montano.

Ma non solo le pitture rivelano la devozione che i fedeli hanno per questi santi. La pala dorata dell’altare maggiore con i santi medici che assistono la Madonna con il Bambino e l’epigrafe sottostante ci ricordano che per quasi un secolo la pietà popolare contribuì alla totale ricostruzione della chiesa con lavori che durarono dal 1523 a tutto il 1639, mentre non si interrompeva il flusso di pellegrini che puntualmente ogni anno si recavano a chiedere grazie per il proprio corpo.

C’è chi sostiene che in questo luogo i pellegrinaggi si facessero anche prima della venuta di Cristo e che addirittura un culto per garantirsi la fecondità nella procreazione sia rimasto fino al secolo scorso. E’ nota la teoria di Hamilton, ambasciatore britannico presso il re di Napoli, che, dopo la visita fatta ad Isernia il 27 settembre del 1778, depositò presso l’Accademia di Londra una relazione con la quale descriveva, anche con disegni, gli ex voto di cera la cui forma egli attribuiva alla continuità con un’antica devozione a Priapo. Personalmente non ne sono troppo convinto, ma questa teoria fa comodo agli amanti di cose curiose.