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Montaquila
Se i Sanniti avessero vinto la terza guerra sannitica, probabilmente la capitale dell’Italia starebbe a Roccaravindola. Ma la storia non si fa con i “se” e Roccaravindola oggi è una frazione di Montaquila. Nella parte bassa, nei pressi della stazione, vi sono i ruderi di una chiesa che era dedicata a S. Barbato, il santo vescovo di Benevento che divenne famoso per aver combattuto in epoca longobarda contro il culto della vipera quando era ancora diffuso presso la sua città. Poco più a monte si ritrovano tratti dell’antico cunicolo dell’acquedotto romano che portava l’acqua dalle sorgenti del Volturno fino a Venafro.
Ma per vedere il nucleo antico di Roccaravindola si deve salire in alto. Però, appena superato l’ultimo dosso della carrozzabile che dalla pianura di Venafro mena all’antico abitato di Roccaravindola, compare agli occhi del viandante una terrificante ferraglia aggrovigliata che si insinua in maniera vistosa e violenta sulle ultime indifese testimonianze della civiltà benedettina in quella parte nodale del sistema vulturnense. Un enorme tubo rosso, con alettoni violacei che simboleggiano le ali di un uccello, si erge in posizione irriverente contro il Cielo come una bestemmia che cerca di colpire senza avere la forza di riuscirvi, dopo aver traforato una lastra di plexiglass, inutile protezione dei brandelli di sacre pitture ormai assalite dalla vegetazione e rosicchiate dalle gelature. Quanti delitti si compiono in nome della cultura! Ed anche l’antica chiesa di San Michele di Roccaravindola ha subìto la violenza blasfema di chi usa gli edifici di culto per estemporanee esercitazioni pseudo-architettoniche.
Eppure l’antico San Michele meritava più attenzione e solo il pellegrino che ancora cerca le suggestioni della religiosità popolare riesce, nella ferraglia prepotente, a ritrovare i fili di una storia che comunque non vuole morire. Anche un rudere può servire a farlo riflettere. Così, se si ferma a guardare quanto rimane dell’antico portale di San Michele, si accorge che l’immagine pagana del Cautopates alato, ormai ridotto a ruolo di genio funerario nell’atto di spegnere la fiaccola della vita, a causa del luogo particolare in cui fu posta, cambiò nome e divenne l’immagine di San Michele o, più semplicemente, di Sant’Angelo.
E non ci fu colle fortificato della Longobardia Minore, e quindi della Valle del Volturno, che non fosse dedicato al Principe degli Arcangeli, antico ricordo di nordiche divinità guerriere.
Se poi avesse la possibilità di superare la falsa porta della chiesa, l’ipotetico pellegrino potrebbe sentirsi osservato dalle figure che sopravvivono aggrappate a spuntoni di murature come quegli antichi eremiti che vivevano in isolati cenobi tra le montagne della Cappadocia.
Brandelli di affreschi che delle opere d’arte dei grandi artisti hanno solo un vago ricordo, ma che sono rigidamente legati alla tradizione italica delle sacre rappresentazioni. Perciò le ambientazioni della vita di Cristo nulla hanno a che vedere con i luoghi originari, anche se di essi presentano le suggestioni, e si confondono con il paesaggio e le tradizioni circostanti.
Per questo motivo la scena della Nascita di Cristo sembra svolgersi ai piedi delle Mainarde dove i pastori, con le loro pecore, rimangono allibiti e meravigliati per l’improvviso apparire di un angelo che sbuca dalle nuvole. Ma ciò che più di ogni altro elemento ci riporta alla tradizione popolare vulturnense è il pastore incappucciato, avvolto nel suo cappotto a ruota, che sta seduto a suonare la zampogna mentre il suo cane assiste incantato al concerto natalizio. Certamente è la più antica rappresentazione di zampognaro della nostra regione, se è vero che tutte le pitture sono databili al XV secolo, come quelle del lavacro di Gesù Bambino, dei Pastori alla Capanna, della Strage degli Innocenti, della Presentazione al Tempio, della Crocifissione.
Dallo spiazzo della chiesa si osserva l’agglomerato ormai cadente e avvolto dalla vegetazione spontanea della longobarda Roccaravindola. Di sera, controluce, l’apparato murario, con qualche brandello di torre, appare quasi tenebroso. E’ facile immaginare che solo lo spirito di qualche vedetta sia ancora tra i ruderi del castello a scrutare verso valle, in direzione del Volturno, là dove ancora sopravvivono i piloni romani di uno dei ponti più importanti di questo fiume. Quel ponte ancora si chiama Latrone forse perché vi si fermavano uomini armati in attesa di qualche viandante sprovveduto o forse perché il Volturno una volta si chiamava Olotrone, come ci ricorda Plutarco.
Montaquila
Roccaravindola, pur avendo probabilmente un’origine legata all’incastellamento delle Terre di S. Vincenzo, è frazione di Montaquila che sicuramente le è contemporanea anche se ebbe uno sviluppo consistente solo in epoca angioina per la necessità di dare sicurezza a quella parte del territorio che comincia ad insinuarsi nella fascia più stretta dell’alta valle del Volturno.
Allora Montaquila era feudo di Andrea d’Isernia e poche sono le notizie sulle sue vicende feudali. Certamente però una comunità esisteva già nel 1182 perché nella pergamena che Papa Lucio III inviava al vescovo Rainaldo, tra le parrocchie della diocesi, è riportata in Monte Aquilo Plebem S. Mariae nonché l’ecclesiam S.Pauli cum tribus capellis et pertinentiis earum.
Dai d’Isernia passò ai Montaquila e, di certo nel 1505, fu feudo dei Carlino. Poco prima del 1600 passò ai Caracciolo, poi ai Pagano e dal 1701 di nuovo ai Caracciolo di Miranda. Dall’apprezzo del feudo del 1663 risulta che la chiesa madre, dedicata a S. Maria Assunta era già cadente. Fu abbattuta nel 1850 e ricostruita nel 1888 dalle fondamenta, con impianto a tre navate, a spese del Comune.