Tags
Related Posts
Share This
Pizzone
Credo che non sia da dubitarsi che Pizzone derivi il suo nome dalla forma della montagna ai cui piedi si appoggia l’antico abitato. La notizia più antica di un castrum Piczoni è del 1383 quando il monaco Giovanni fu costretto a vendere alcune terre per restaurare il Monastero di S. Vincenzo.
Mi è capitato di andare a Pizzone alla fine di marzo, quando le Mainarde, che le chiudono la vista ad Occidente, sono ancora piene di neve. Qui riceve particolare venerazione Santa Liberata che, secondo una immaginosa tradizione, era una delle nove figlie gemelle nate nella penisola iberica da Celsa, moglie di un militare romano. La sua festa, dai primi del Seicento, si celebra il 10 di giugno di ogni anno in una graziosa chiesa, tutta in pietra, che esiste almeno dal 1637 quando fu ricostruita e dedicata a lei, forse, sui ruderi di una precedente cappella che si trovava proprio davanti alla porta bassa del paese. Di questa porta rimane solo un vago ricordo nell’arco che ne ripete il limite originario sulla cortina di case sovrapposte all’antica cinta muraria angioina. Allo stesso modo, poco più avanti, una bella torre, privata degli elementi necessari alla difesa e inglobata in un’abitazione, ha mantenuto il primitivo impianto. Anche questa minuscola piazza ha la sua teglia che nella stagione estiva fa da ombrellone come in tanti altri paesi del Molise.
E’ domenica ed è ancora presto per visitare la Chiesa di S. Nicola dove padre Alfredo dice la messa dopo le 11. Perciò vale la pena di approfittare per entrare nel paese da un’altra parte, dove era la scomparsa chiesa di S. Rocco che, come al solito, si trovava subito fuori dell’abitato. Rimane il suo ricordo in una cappella votiva dove una piccola immagine del santo riceve, dal 1905, le attenzioni insieme alla Madonna Immacolata e S. Antonio. Da questo punto, che gli anziani chiamano porta di voria, inizia un ripido vicolo che si infila nella parte alta di Pizzone. Percorrendolo si capisce il motivo del nome, perché si è quasi spinti dal vento freddo che viene da settentrione. Come per gli altri paesi il silenzio la fa da padrone. Però i colpi secchi di un’accetta segnalano che qualcuno tiene in vita quel grappolo di case. Gli chiedo indicazioni sulla casa del Parroco ed egli mi invita ad entrare in casa per prendere un caffè. Si chiama Pietro ed è in pensione da qualche anno. Aprendo l’uscio di casa avverte la moglie Adriana che sta entrando un ospite. Dall’ingresso, invece di salire, come mi aspettavo, scendiamo per una scala in pietra antica che si sviluppa quasi fosse il tronco irregolare di un albero i cui rami sono le camere da letto, tutte diverse tra loro. Pietro mi fa vedere con orgoglio il bagno che ha ricavato scavando la roccia. Mi precisa che il vero progettista è stato sua moglie. Io gli dico che fortunatamente non si è rivolto ad un architetto. Gli ambienti rispondono ad una logica organica, con un rispetto topico che fa apparire quella casa come il luogo della memoria storica. Ma, come accade per un gran numero di molisani, è anche il luogo dell’attesa del rientro dei propri familiari che ormai hanno trovato lavoro altrove. E così i giorni dell’attesa si passano a predisporre sistemi di sicurezza per la nipotina che potrà muoversi tranquillamente in quell’articolato organismo di ambienti l’uno incastrato nell’altro, le cui finestre si aprono verso la valle del Volturno in quella parte dominata dalla rupe su cui si appoggia Castel S. Vincenzo. Il caffè, insieme alla pigna pasquale, lo prendo nel cuore della casa, dove ogni angolo è sapientemente utilizzato. Nel riguadagnare l’uscita si ha la sensazione che quella scala sia come una vena capillare che è ricca di vita perché si collega al sistema arterioso dei vicoli del paese. Il sistema stradale, a dimensione solamente umana, è condizionato dall’impervia orografia naturale. Così i vicoli scendono in basso seguendo un comodo andamento a zig-zag. Qui e là i conci di chiave di un bel numero di portali portano le date del XVIII e del XIX secolo. Su qualcuno è abbreviato il nome dell’arciprete. Più avanti, un concio su cui è inciso IHS 1757, avverte che quell’edificio è della Chiesa. Su un altro vi è la testa di un leone che sembra piuttosto un grosso gatto. Sull’architrave di una bella finestra sta un angelo con la data 1745.
Sulla piazza si apre il bar con trattoria. La proprietaria, la signora Ida, si sente in dovere di non farmi pagare il caffè quando dico che il suo aroma è speciale.
Alla chiesa di S. Nicola si può arrivare dal basso o dall’alto. Venendo da sopra la gradonata è chiusa prospetticamente dalla mole del campanile con l’orologio all’italiana diviso in sei ore. Dal basso, invece, si arriva dalla piazza di S. Liberata passando per un supportico che finisce con un arco che inquadra l’asimmetrica monofora quadrilobata.
Per riprendere fiato ci si può sedere sul sedile che gira attorno al minuscolo spiazzo e così si notano meglio i segni delle trasformazioni avvenute nel tempo. L’epigrafe sull’architrave dell’attuale portale attesta che grandi lavori furono compiuti nel 1830, regnante Francesco I di Borbone, ma una lapide (che dopo varie peripezie è in bella mostra all’interno) ci assicura che nel 1318 l’abate Nicola ne abbia disposto un radicale rifacimento. Non tutti gli storici si sono resi conto che si tratta di Nicola di Frattura che fu celebre non solo per il suo originale commento alla Regola di S. Benedetto, ma anche e soprattutto per la sua fuga a Bologna per non avere a che fare con Celestino V, di cui fu apertamente avversario. La chiesa, ben tenuta, è a tre navatelle e vi si venera S. Ilario vescovo, S. Rocco e altri santi tra cui S. Liberata crocifissa. La singolare iconografia popolare vuole che sia stata martirizzata come Cristo, sicché la statua che viene portata in processione la vede inchiodata sulla croce con lo sguardo rivolto al cielo. Ma il titolare è S. Nicola di Mira la cui immagine è stata ritrovata su una tavola cinquecentesca riutilizzata per un pulpito che ora non c’é più. Il Santo si vede come al solito con le tre palle in mano ed il bambino con la coppa, recuperato per i capelli miracolosamente dal mare. Sotto il suo altare si apre la cosiddetta cripta che altro non è che il vano obituario dei nobili del paese i quali avevano il diritto a rimanere inumati nelle loro casse di legno poggiate su rozzi mensoloni di pietra, mentre i corpi dei popolani erano deposti nella contigua fossa comune. Tutto il mondo è paese.