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Sant’Agapito

Per arrivare a S. Agapito si può seguire la carrozzabile indicata dalle insegne stradali oppure prendere una strada tortuosa e pericolosa che parte dalla piana di Macchia, dal luogo che ancora si chiama di S. Vito, e che passa per una contrada che porta lo strano nome di Temennotte. Non so perché, ma ho sempre collegato questo toponimo ad una sorta di timore dell’arrivo della notte a causa di qualcosa di straordinariamente grave che effettivamente è avvenuto in quei luoghi oltre undici secoli fa.

Il console napoletano Andrea, per difendersi dalle ripetute aggressioni del principe longobardo Sicone, nell’835 aveva assoldato soldataglie saracene innescando un processo che progressivamente, una volta a favore di una fazione e una volta a favore dell’altra, determinò l’arrivo sempre più organizzato di truppe arabe mercenarie.

Fu così che anche il monastero fortificato di S. Vito si trovò malauguratamente sul percorso di Mashar, uno dei più feroci condottieri saraceni, che lo devastò nell’845: … castellumque postmodum Sancti qui cognominatur Viti coepit. Non sappiamo esattamente se questo castello fosse l’odierna Temennotte o l’attuale S. Agapito, ma il fatto sicuramente avvenne da queste parti.

Il paese attuale è tutto raccolto all’interno di un perimetro che dell’antica fortificazione longobarda o normanna conserva solo il nome nella via che viene chiamata “Tornalamanea” forse perché girava attorno alle moenia, cioé le mura di difesa.

Il castello, oggi malamente ridotto a palazzo ducale dopo le trasformazioni seicentesche, si trova all’entrata di S. Agapito, attaccato alla porta da capo, ed il suo fossato, da quando ha perso definitivamente la sua funzione difensiva, è stato colmato per farne una piazza.

Per entrare nella corte basta spingere un’antica porta foderata di ferro che sta sotto lo stemma barocco che ricorda che il suo anonimo titolare era un Caracciolo imparentato con i Galluccio. Il cortile interno ha il fascino dei signori decaduti ma non ancora rassegnati a perdere anche lo stile. Una torre circolare da una parte ricorda le trasformazioni angioine, mentre ciò che rimane di una fontana dall’altra suggerisce di dare una occhiata dietro una malandata porticina di quercia che era l’affaccio di una grande cisterna ridotta dal moderno acquedotto al ruolo di deposito di acqua stagnante. Ma il protagonista dello spazio è un possente leone che, con le sue dimensioni al naturale, sembra ancora pronto a ruggire nonostante gli acciacchi del tempo che si leggono sulle parti deteriorate del tenero tufo dal quale uno scalpellino regnicolo estrasse la forma.

Forse in questo luogo teneva la sua dimora, molto meno articolata, quel Bartholomeus filius Giroldi che il Catalogo dei baroni ci dice essere stato feudatario normanno di Santa Justa, di S. Vito, di Riporse e di S. Agapito e che contribuiva al sostentamento di 10 soldati ed altrettanti servienti nell’esercito per avere in concessione un così vasto territorio.

S. Agapito non ha nulla di particolare, neppure nella sua chiesa dedicata a S. Nicola per la quale il suo arcipresbitero pagava regolarmente le decime nel 1309.

Però una cosa misteriosa da tempo attira la mia attenzione senza che abbia mai saputo dare una soluzione. Dentro la piccola corte di una casa, vicino alla porta laterale della chiesa, vi è la vasca esterna di una cisterna. Chi la osserva trascura immediatamente il grande faccione barocco che una volta reggeva la valvola dell’acqua per dedicarsi inutilmente ad interpretare una epigrafe incomprensibile.

Al centro la data 1622 dovrebbe dare una collocazione temporale definitiva, ma la cosa non è scontata perché un’altra mano, quindici decenni dopo vi ha aggiunto queste lettere incomprensibili: ET ALS P. 1764. Ancora più misteriose le parole abbreviate del rigo inferiore: PENV. OIVZBORVNOT.SIO. GVL CIMORELLI.

Cosa abbia voluto dire questo notaio Cimorelli forse non lo saprò mai, però ogni volta che passo davanti a quella vasca la curiosità mi prende.

S. Agapito con la sua architettura povera non ha cose particolari da offrire al visitatore se non il paesaggio che non si vede percorrendo i vicoli (che gli abitanti del luogo rendono incredibilmente accoglienti con una straordinaria sequenza di vasi che mostrano ogni genere di fiori), ma che appare in tutta la sua eccezionale scenografia non appena si sbuca verso l’esterno da uno dei pochi varchi della corona urbana medioevale. Così è sul colorato slargo della cosiddetta Croce bizantina, che di bizantino non ha proprio nulla, ma che costituisce un riferimento sicuro nella struttura stradale del paese. E’, come le altre croci stazionarie del Molise, un collage di pezzi di varie epoche con una colonna romana su cui si appoggia un capitello corinzio che regge una croce liscia dai terminali polilobati.