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Venafro

Se a qualcuno venisse in mente di fare una passeggiata nel Centro Storico di Venafro e nelle aree immediatamente circostanti, troverebbe immediatamente grandi difficoltà a ricucire nel proprio cervello la grande quantità di brandelli di architettura, di archeologia e, più genericamente, di arte che sono disseminati un po’ dappertutto. Ma se quel qualcuno riuscisse a superare il primo momento di sconforto, potrebbe rendersi conto che è possibile, alle soglie del nuovo millennio, trovare il bandolo della matassa ed avventurarsi in un viaggio nel tempo capace di far rivivere in una giornata momenti storici che si sono succeduti in uno spazio temporale di vari millenni.

Per capire le motivazioni che hanno portato gli antichi abitatori del territorio venafrano a costruire la città in quel particolare luogo si deve tornare al 295 prima di Cristo e tener conto di alcuni dei problemi fondamentali che dovevano essere affrontati dai conquistatori Romani all’indomani della loro vittoria sui Sanniti.

Il nuovo insediamento, che si sarebbe chiamato Venafrum riprendendo da un precedente toponimo osco di cui si sconosce il significato, avrebbe dovuto avere una buona esposizione rispetto al sole, avrebbe dovuto avere uno sviluppo planimetrico in pendenza per facilitare lo scolo delle acque, sarebbe dovuto essere facilmente difendibile, avrebbe dovuto avere un’ampiezza sufficiente ad ospitare qualche centinaio di famiglie di nuovi coloni, sarebbe dovuto essere dotato di una consistente sorgente di acqua facilmente utilizzabile. Tutto il resto lo avrebbero realizzato, con un sistematico e puntuale intervento di urbanizzazione, gli assegnatari dei lotti edificatori.

Queste condizioni si ritrovavano tutte in quell’area che poi fu effettivamente occupata dal nucleo venafrano che per oltre duemila anni, con alterne fortune, è rimasto sempre sullo stesso sito.

Intanto l’esposizione più favorevole per un terreno da urbanizzare è quella che ha la linea di pendenza che guarda a meridione. Il versante meridionale della montagna di S. Croce, sulla cui sommità rimanevano i ruderi di fortificazioni sannitiche non più utili per il nuovo sistema di difesa dei vincitori romani, era l’ideale nel contesto volturnense, soprattutto per la favorevole circostanza di dominare una estesa pianura che avrebbe permesso di soddisfare l’esigenza di sviluppare una produzione agricola adeguata al numero di famiglie insediate.

In secondo luogo le protuberanze naturali della parte pedemontana, veri propri conoidi di deiezione ormai consolidati per il dilavamento quasi completato della montagna, non eccessivamente distanziati tra loro, costituivano il limite ideale per attestare gli spigoli più elevati della cinta muraria urbana, capaci di ospitare attrezzature per l’avvistamento di eventuali assalitori dai lati orientale ed occidentale.

La linea di pendenza, poi, non era particolarmente aspra, sicché non sarebbe stato eccessivamente arduo creare un sistema urbano a lotti perfettamente quadrati, le insulae, delimitate da una serie di assi stradali, tutti paralleli tra loro, che sarebbero andati dall’uno all’altro colle. Questi assi avrebbero accolto, come di fatto avvenne, i collettori principali della rete fognaria indispensabile per garantire una igienica utilizzazione dei lotti.

L’area così individuata era capace di ospitare, senza sovraffollamenti, il numero di famiglie che il governo romano aveva programmato di insediare per garantire un equilibrato sviluppo economico del territorio.

Ultimo elemento determinante era la presenza di una sorgente naturale che alimentava il corso di un piccolo fiume, il S. Bartolomeo, anticamente chiamato Durone.

Non si conosce con precisione la data della fondazione romana della città, come per Isernia che è il 265 prima di Cristo, ma sicuramente intorno a quell’epoca si cominciò il tracciato della struttura urbana che si sviluppò in maniera piuttosto semplice fino all’epoca di Giulio Cesare, risentendo, nel frattempo, di tutte quelle crisi che caratterizzarono la storia di Roma.

L’episodio più doloroso forse fu quello che avvenne intorno al 90 a. C., quando Venafro subì la vendetta di Silla per essersi schierata dalla parte Mario. Ma il territorio venafrano era troppo importante anche dal punto di vista economico, oltre che strategico, per essere trascurata dal governo romano e dagli imprenditori. In epoca sillana si costruì un grandioso complesso, oggi chiamato delle Mura Ciclopiche, dove fu edificata una importante villa o un edificio sacro.

Con lo stabilirsi di una colonia Julia intorno al 59 a. C. e con i successivi interventi di epoca augustea, la città assunse un forma grandiosa, dotandosi di edifici che ancora oggi consentono di affermare che era tra le più importanti dell’impero.

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Un anfiteatro capace di ospitare almeno 20.000 spettatori seduti, un teatro con sedili per 2.500 persone, un acquedotto che, insinuandosi nell’alta valle del Volturno per oltre 30 chilometri, alimentava fontane e piscine di ricche ville ornate di preziose statue come la stupenda Venere, tra le più belle di quelle che si conoscono e che è il pezzo più importante della raccolta archeologica del Museo di S. Chiara.

Oggi i segni di quelle architetture sono polverizzati in una miriade di reperti spesso inseriti nelle facciate di palazzi antichi o affioranti in qualche giardino o, ancora, brutalmente abbandonati per strada a fare da inutile ostacolo a pedoni troppo impegnati ad orientarsi nelle caotiche distrazioni della moderna civiltà.

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Chi vuole sapere perché la Cattedrale di Venafro stia fuori dell’abitato troverà la risposta solo quando capirà che nel V secolo, ai tempi del primo vescovo Costantino, la città romana giungeva fino a quel punto. Quando nel Medioevo la città si restrinse attorno al colle di Sant’Angelo dove fu posto il castello longobardo, la Cattedrale venafrana continuò a rimanere nell’originario luogo perché, come racconta una storia popolare, lì erano stati imprigionati i santi Nicandro, Marciano e Daria prima del martirio. Non è necessario credere a quella storia, ma è bello che ancora si racconti anche quando il popolo, il 18 giugno di ogni anno, segue le statue dei Santi che entrano per la porta principale ed escono per quella della facciata laterale.

La verità sulla storia della cattedra vescovile la raccontano i documenti e le sue pietre. Il primo vescovo di cui si ha memoria è, dunque, un Costantino che la tenne quando papa Simmaco cominciava a dare un assetto organico alle diocesi cristiane. Ma chi trasformò la basilica nelle forme che ancora oggi si vedono fu il vescovo Pietro di Ravenna poco dopo l’anno Mille. Dalle terre dell’Esarcato si era trasferito a Montecassino dove era divenuto monaco proprio nell’epoca di massimo splendore di quel cenobio e fece parte della cerchia illuminata del grande abate Desiderio, poi divenuto papa con il nome di Vittore III.

Dunque Pietro di Ravenna fu eletto vescovo di Venafro mentre a Montecassino l’abate Desiderio dava un impulso concreto ad una vera e propria restaurazione architettonica che, nel solco della tradizione costantiniana, riproponeva il tema delle chiese basilicali a tre navate che si concludevano sul fondo del presbiterio con altrettante absidi circolari. Perciò anche nella cattedrale venafrana si ritrovano applicati moduli costruttivi e proporzionali che hanno come misura base la larghezza interna della facciata.

Tutte figure geometriche teoriche di cui non vi è traccia visiva nel monumento, ma che il visitatore ricava inconsapevolmente dal suo equilibrio spaziale.

A questa particolare scelta di metodo, dunque, va ricondotta anche l’immagine a rilievo collocata sulla parete meridionale del campanile della Cattedrale e che viene popo­larmente chiamata “Marzo con sette cappotti”, ma che è l’immagine di Pietro di Ravenna, composta in uno schema geometrico proporzionale di origine pitagorica; infatti, il rettangolo entro cui si inserisce il vescovo ri­sponde ad una precisa regola collegata a quel particolare triangolo rettangolo (che nel nostro caso si individua nel lato minore, nel lato mag­giore e nella diagonale del rettangolo) in cui il cateto di base corrisponde a tre moduli, il ca­te­to di altezza a quattro moduli e di conse­guenza l’ipotenusa è pari a cinque moduli. Sulla cattedra venafrana si sono avvicendati tanti vescovi. Ognuno ha lasciato una traccia ma di Orazio Caracciolo de Pasquitiis, consacrato vescovo nel 1573, si ha un ricordo particolare. Egli trasformò il portale destro della facciata che, una volta in legno, fece murare per poi riaprirlo e poi di nuovo murarlo come Porta Santa nel 1576, mentre era papa Gregorio XIII.

Ma Venafro non si capisce se non si capisce il tradizionale culto per i santi patroni della città. Angelina non si era mai sposata e curava con affetto materno Nicandro, Marciano e Daria che stavano immobili in quel quadro che, fissato sotto il balcone di casa sua, proteggeva quotidianamente l’antica porta urbica detta del giudice Guglielmo. Ogni anno, la sera del 18 giugno, quando la statua di San Nicandro, superata la porta, si fermava per il canto dell’Inno, Angelina guardava prima il suo San Nicandro, poi il San Nicandro della processione e, facendosi sentire, diceva: “Chissà se si sono riconosciuti?”. Angelina con quella frase mi ha aiutato a capire il significato dell’immagine sacra nella cultura bizantina. L’immagine sacra, qualunque essa sia, non rappresenta una copia dell’originale, ma è un nuovo originale che è fisicamente presente attraverso la sua copia. La pittura bizantina si comprende se, invece di guardare le figure, ci facciamo guardare da esse. Perciò a Venafro si moltiplicano i quadri di San Nicandro. Più volte si ripete l’immagine, più volte è presente San Nicandro, ad ogni capocroce di strada.

E così quando San Nicandro, portato in processione accompagnato da migliaia di ceri accesi, si infila nei vicoli di Venafro per raggiungere tutte le porte della città con le chiavi in mano, assicura la protezione a tutto il nucleo urbano. Una processione interminabile, spesso disordinata, come il camminare quotidiano per le strade che ti sono consuete, senza fretta e senza l’assillo di una scadenza. Perno di tutto è la straordinaria chiesa dell’Annunziata, la “Lenziata” per i Venafrani, che rappresenta un misto di sentimento religioso e valori civici per il fatto di essere non solo il concreto riferimento popolare di cerimonie liturgiche, ma anche il luogo fisico dove si conserva il busto di San Nicandro e conseguentemente il luogo di inizio e fine delle cerimonie legate alle celebrazioni del Santo. Una somma di valori che oggi difficilmente può essere percepita da quel visitatore frettoloso che voglia limitarsi a valutare gli aspetti artistici o architettonici solo per quello che appare ai suoi occhi e a dare un giudizio che non tenga conto delle reciproche interferenze che si creano tra il monumento ed il suo naturale fruitore. Certamente l’attuale abbandono del nucleo antico venafrano non rende l’idea delle ragioni che hanno determinato l’esistenza e la sopravvivenza di tale monumento, ma scavando nella memoria collettiva e ricercando le motivazioni di particolari forme della pietà popolare si può, con maggiore chiarezza, analizzarne i singoli elementi per cogliere, alla fine, il senso globale di questa bella chiesa laicale sia per gli aspetti artistici o architettonici che hanno riferimento con l’articolato quadro delle evoluzioni della più vasta cultura artistica o architettonica, sia per le forme devozionali che si caratterizzano anche in rapporto alla tradizione religiosa locale.

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L’Annunziata è la chiesa dei Venafrani, ma è anche un monumento di arte ed architettura. E’ Annunziata la sua piazza con l’articolarsi delle facciate che si fondono in un rapporto prospettico completatosi attraverso secoli di trasformazioni tutte orientate a definire uno spazio a misura d’uomo, dove è naturale muoversi, fermarsi, parlare, assistere alle sacre rappresentazioni, aspettare la sposa che esce dalla chiesa, leggere nelle pietre i particolari della sua storia, accendere il favore il 25 di marzo. E’ Annunziata il suo arioso interno che si gonfia come un lenzuolo trattenuto verso il basso da un cerchio di bambini. Sono Annunziata le pitture settecentesche di Paulo Sperduti e di Giacinto Diano (ben restaurate dal mio amico Luciano Maranzi), gli altari lavorati a Napoli dai migliori marmorari partenopei, gli stucchi dei milanesi Carlo Giuseppe Tersini e Giando­menico de Lorenzi, il grande organo barocco che, dopo decenni di silenzio, ora è tornato a suonare. E’ Annunziata anche la statua di San Nicandro che non c’è più, le acquasantiere che sono state rubate, la splendida cupola rinascimentale che dagli inizi del XVII secolo raccoglie su di sé l’attenzione di chiunque osservi il profilo della città. E’ Annunziata la sua facciata dove, esaminando con un po’ di attenzione il colo­re e la natura delle pietre che formano il prospetto, non è difficile ricostruire il disegno della prima chiesa che, secondo l’atto di fondazione, era stata già terminata dai sette flagellanti di Venafro alla data del primo gennaio 1386.