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Carpinone
Se alla fine del quattrocento un maestro incisore nordico fosse passato nella valle del Carpino avrebbe certamente riportato sul suo libretto di appunti il profilo di Carpinone, arroccata su un peschio calcareo che accoglieva, allora come oggi, il poderoso castello e le svettanti torri della cinta muraria. Quell’immagine avrebbe potuto costituire lo sfondo di una sacra rappresentazione o di una scenografia domestica, ma anche il fondale di una scena apocalittica perché il paese ancora mostrava i segni del terremoto del 1456.
Dopo alterne vicende urbanistiche legate all’avvicendarsi dei suoi feudatari, nel 1730 Giovanni Papa, un tavolario venuto a Carpinone per fare l’apprezzo del feudo, così descrive il paese: La terra di Carpinone edificata sull’erta di piccol colle risiede in provincia di Molise tra la città d’Isernia verso Napoli, e quella di Campobasso verso Lucera di Capitanata. Ella è tutta murata, e difesa all’intorno con torri quadre, e tonne per bastioni all’antica maniera, benché per la remota sua edificazione tal recinto è in alcune parti rotto e guasto, e inoltre talmente leso, che è quasi ridotto in stato ruinoso, e cadente.
Tra le chiese che ancora vi si possono visitare, nonostante l’ingiuria dei terremoti, del tempo e, a volte, anche degli uomini, vi è quella di Santa Maria di Loreto. La sua origine, come spesso accade, si arricchisce di episodi leggendari e se a Carpinone mancò un imperatore come Costantino che avrebbe potuto giustificare la sua fondazione con un sogno premonitore, vi rimediò un certo Biagio Martella che, intorno al 1620, fece sapere ai suoi contemporanei di aver avuto l’apparizione della Madonna di Loreto che gli avrebbe suggerito di recarsi a Roma perché lì avrebbe avuto indicazioni precise su cosa fare. Poco prima di giungervi, in un’osteria ascoltò il colloquio di alcuni avventori che raccontavano di aver nascosto un tesoro in un luogo che a Carpinone chiamano Focara. Tornato immediatamente dalle sue parti andò a scavare e, trovato il tesoro, fece restaurare la preesistente chiesa della Vergine lauretana, con buona pace della sua coscienza.
Che sia vera o falsa la storia ha poca importanza nell’immaginario collettivo. La chiesa esiste e, nonostante le tante manomissioni, ancora presenta alcune particolarità meritevoli di attenzione. Fortunatamente vi sopravvive, con grandi problemi di conservazione, l’altare maggiore con tutto l’apparato strutturale e decorativo. Si tratta di una singolare composizione, sicuramente smontata e rimontata alla metà del settecento quando fu sostituito il sottostante altare marmoreo. La data 1617, che in bella evidenza appare nel cartiglio apicale, ci fornisce la certezza dell’epoca di sua realizzazione.
Complessivamente è un tipo di composizione che assume il significato simbolico della Porta del Cielo, attingendo evidentemente alla tipologia di quei portali classici che, reinterpretando lo stile tardo-rinascimentale, compaiono anche nel territorio molisano ai primi del Seicento. Scenograficamente due colonne composite reggono una ricca trabeazione su cui poggiano due semicornici curvilinee di un timpano spezzato al centro del quale si apre il sacello che protegge l’Ostia radiante come un sole. Singolare anche la decorazione della base delle due colonne principali. Qui si vedono rappresentate due sirene bicaudate, apparentemente insolite in un ambiente sacro, ma che sono, secondo alcuni, l’evocazione della quaresima perché significano il passaggio dal pesce alla carne. Al centro è il tempietto che accoglie la sacra immagine della Madonna di Loreto che sta su una nuvoletta che si appoggia alla casa trasportata da due angeli.
Anche se totalmente distrutto l’apparato decorativo della chiesa, vi si conserva, comunque, un pregevole crocefisso d’argento. Fu realizzato, come attestano i bolli, a Napoli nel 1773. La sua base lignea è ricoperta da una lamina di argento lavorata a sbalzo. Contiene, all’interno di uno scudo compreso tra le volute barocche, l’immagine della Madonna Regina assisa in trono con lo scettro nella destra, mentre regge sulle ginocchia il Cristo Bambino con la sinistra. Sulla soprastante croce, dai bracci terminanti in ricche volute, una raggiera fa da sfondo al Cristo che ha ai suoi piedi il teschio di Adamo e in alto il cartiglio di re dei Giudei.
Carpinone aveva un bel castello che solo da lontano sembra ancora un bel castello. Dei feudatari di Carpinone non si hanno notizie prima dell’epoca angioina, però il suo abitato esisteva almeno dal 1064 quando da Montecassino dipendeva l’Ecclesia Sancti Marci de Carpenone, loco Aquasonulapresso Pesche. Credo, però, che la costruzione del castello sia da ricondurre all’iniziativa di uno dei suoi primi signori: quel Tommaso d’Evoli che fu pure padrone di Monteroduni, Castelpizzuto e Roccamandolfi intorno al 1281. Poi passò a Giacomo Caldora e a suo figlio Antonio. Ma anche di essi non rimane traccia. Nel cortile degradato due pietre che recano, invece, l’immagine rozza del cigno ci ricordano che il castello fu dei Cicinello dal 1467, dopo essere appartenuto anche ai Pandone. A distanza di un secolo sembra attualissima la descrizione che ne fece Alfonso Perrella alla fine dell’Ottocento: Larghe sale si veggono cadute a metà; e dove un giorno re Alfonso, Giacomo, Antonio, Raimondo Caldora, e tanti altri insigni guerrieri, e dove risuonarono le loro voci e lo squillo delle belliche trombe, oggi cresce folta l’erba e strisciano le lucertole. Anzi, a ciò si deve aggiungere l’assurda iniziativa di un imprenditore omonimo dei Caldora che, per darsi un blasone, volle comprare questo castello. Vi spese inutilmente una quantità di denaro per fare un salone in cemento armato che piuttosto potrebbe definirsi un grande sarcofago incompiuto. Qualche tempo dopo, insieme a Rocco Peluso, feci un progetto di restauro per sistemarvi un Museo dell’Epopea Sannitica con i modelli ricostruttivi di tutte le battaglie epiche.