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Castelpizzuto
E’ il paese del Molise con il minor numero di abitanti, meno di un centinaio, ma elegge comunque un sindaco ed un consiglio comunale. Oggi è famoso perché, subito fuori dell’abitato, vi si imbottiglia l’acqua pura del Matese che si vende anche fuori dell’Italia con l’etichetta “Castellina”.
Per entrare al paese si deve girare attorno alla colonna circolare di una croce stazionaria che è innestata su un bel capitello trecentesco. Chi le ha cementato dietro un banale lampione della luce pubblica certamente non aveva alcun interesse a consentire che quella croce continuasse ad essere il riferimento ed il limite delle processioni che iniziavano e finivano nella vicina chiesa parrocchiale dedicata a S. Agata che ancora protegge le donne dalle malattie ai seni. La chiesa è dedicata a questa santa almeno dal 1594, come ricorda la data sulla facciata, ma il protettore di Castelpizzuto è S. Attanasio.
Il suo prospetto probabilmente è la modifica di uno più antico. E’ talmente semplice che non vale la pena di parlarne se non per dire che conserva in bella vista un toccante epitaffio composto per ricordare sei giovani del paese morti nella prima guerra mondiale: Nel candore di questo marmo i nomi benedetti di coloro che da questa romita piccola terra fedele andarono a morire per l’Italia – 1915-1918.
La chiesa è chiusa. Don Giovanni viene solo la domenica da Roccamandolfi a dire messa sul presto. Così decido di fare un giro per la parte antica per cercare di capire se il nome del paese derivi dall’esistenza di quel castello normanno appartenente a Thomasius de Piczuto che erafeudatario per conto di Ugo di Molise il cui cognomen toponomasticum (come ricorda Errico Cuozzo) deriva da Moulins-la-Marche, la regione della Francia da cui provenivano i conti che dettero il nome alla regione.
Sullo slargo della chiesa in realtà si affaccia anche il palazzotto baronale, ma per la sua posizione e per la sua struttura architettonica dubito che sia l’originario castello normanno. Sicuramente il torrazzo circolare che sopravvive malamente nella parte posteriore non è più antico della tarda epoca angioina e sembra che chieda di morire quanto prima perché è stanco di aspettare in quel modo indecoroso l’arrivo di un improbabile nemico.
Il modesto portale settecentesco della facciata e qualche finestra della stessa epoca sono invece il desolante, residuo ricordo degli ultimi bagliori di quei feudatari che non risparmiarono di vessare anche questa poverissima parte del Matese, dai Ponte, ai Roccafoglia, agli Alferio, ai Caetani, ai Pandone, ai Galeota, ai d’Agostino, ai Terzi, ai Marchesano, ai di Blasio, ai Sommaia, fino ai de Vincentiis.
Il nucleo antico di Castelpizzuto è completamente abbandonato. Il Municipio coraggiosamente rimane come unico riferimento sicuro per la piccola comunità locale che, invece, per bere una birra o comprare il pane deve andare almeno fino a Longano, dove qualche negozio c’é ancora.
Eppure Castelpizzuto, come un signore allo sfascio, conserva i segni di un dignitoso passato. Lo dimostrano i bei portali settecenteschi, le finestre lavorate con gusto, qualche loggiato ormai murato per difendersi dai terremoti. Lo dimostra una bella casa completamente in rovina, nella parte alta del paese, che si affaccia sulla strada con un portichetto con due archi ribassati che poggiano su un’unica colonna che conserva tutti gli elementi canonici dell’architettura neoclassica. Lo ricorda l’epigrafe in marmo che l’Amministrazione Comunale pose a ricordare agli ultimi abitanti di Castelpizzuto che Michele Romano era loro compaesano e che in quella casa all’angolo di via Monaca nacque e visse prima di diventare famoso.
Man mano che si sale le stradine diventano più strette, fino ad arrivare ad una di esse che non ha un nome ma che si chiama il vico. Ormai è impercorribile e viene naturale prendere una diversa direzione nella speranza di incontrare qualcuno che possa raccontarti qualcosa.
Nessuno.
I portali delle case sono bassi e così non può sfuggire all’occhio una rozza testa di demone, con due piccole corna di capra, che, formando il concio di chiave dal 1931, provocatoriamente guarda chi passa. Subito fuori, tra l’abbaiare sguaiato di un cane legato ad una lunga corda e l’alluminio anodizzato che ormai rappresenta lo status-simbol di chi ha faticosamente restaurato la propria antica abitazione, sopravvive una piccola chiesa che stranamente ha la facciata che guarda fuori del paese. Forse era fatta per chi arrivava dalla campagna. Un piccolo recinto esterno con l’antico cancello aperto sembra invitarti a osservarla prima che crolli definitivamente. Guardando da una delle due finestrelle aperte ad altezza di viso, come quelle che si trovano in tutte le chiese di campagna perché fatte per consentire di rivolgersi al santo anche quando la chiesa è serrata, scopri che S. Sebastiano ne è il titolare. Il tetto, in pietra sfogliata, sta per crollare sotto lo sguardo del campaniletto che una volta batteva le ore all’italiana, come dimostra l’ormai inconsueto quadrante circolare in pietra dove le ore sono soltanto sei, in capitale classica.