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Macchia d’Isernia

Perché anticamente si chiamasse Macchia Saracena non è facile a dirsi. Vengono chiamate saracene le mura sannitiche di Longano. Viene chiamata saracena la porta orientale di S. Maria Oliveto. Viene chiamato saraceno il monte di Pietrabbondante e Saracinisco è l’appellativo del paese di S. Biagio. Veniva chiamato saraceno il frumento dei romani.L’appellativo, dunque, si ripete spesso nel nostro Molise e c’è chi lo lega ad una antica radice italica, sarra, che significherebbe roccia e chi, come il mio amico Domenico Caiazza, il migliore dei conoscitori dell’antico sistema viario pedematesino, che sostiene che si tratti di un ricordo ancora vivo delle incursioni saracene della seconda metà del IX secolo. E che la piana di Macchia, quando fu distrutto dal feroce Mashar il monastero di S. Vito, sia stata percorsa dalle truppe ismaelitiche non vi sono dubbi.

Oggi Macchia deve il suo secondo nome alla vicinanza ad Isernia e deve a questa vicinanza se sopravvive attivamente rispetto ad altri centri tagliati fuori dalle consuete linee di traffico. Ma pur se la sua piana è ormai un pullulare di attività commerciali, il suo centro antico conserva intatto il carattere medioevale, tutto raggruppato per la difesa sul colle dedicato a S. Nicola di Bari ed un borgo esterno dedicato invece a S. Biase. Quasi una riedizione in piccolo della contrapposizione dei due santi sull’Adriatico con il vescovo di Mira protettore di Bari ed il vescovo di Sebaste, protettore dell’opposta Dubrovnik. Contrapposizione che è abbastanza consueta nel nostro territorio dove, spesso, S. Nicola e S. Biagio si dividono il territorio urbano in una sorta di sacra ripartizione per assicurare la protezione su tutto l’abitato. Ma a Macchia d’Isernia la contrapposizione più evidente si ritrova nelle poderose torri che si fronteggiano proprio nelle parte più alta del paese: quella del campanile della chiesa di S. Nicola e quella del palazzo baronale che era l’antico castello angioino.

Il nucleo urbano ha un carattere semiavvolgente e le strade seguono le curve di livello naturali interrotte dai raggi di penetrazione ortogonali. Tutto il sistema di difesa certamente fu riorganizzato intorno al XIV secolo, in pieno dominio angioino, quando furono aggiunte anche le torri circolari nelle parti più facilmente attaccabili. Due porte, una da piedi ed una da monte, costituivano i soli varchi praticabili. In cima il castello, attaccato alla porta da monte. Macchia è stata feudo dei de Sus nel 1269, cui seguì il dominio di Aldemario di Scalea finché nel 1343 Roberto d’Angiò l’assegnò alla propria moglie Sancia. Nel 1464 passò ai Doce e poi ai Gaetani per finire dal 1503 ai d’Afflitto che la tennero fino al 1519 quando Carlo V la concesse al suo fedele Guglielmo de Groy. Poi passò ai Frezza, ai de Maria, ai della Marra che la tennero in possesso dal 1611 al 1638, quando il feudo fu venduto all’asta per i forti debiti che Giambattista aveva contratto.

E’ probabile che proprio nel periodo dei della Marra il castello sia stato sostanzialmente trasformato. Così perse il carattere di rude fortezza per prendere quello di residenza ariosa, dalle linee rinascimentali, secondo la moda e le sopravvenute necessità dell’epoca. Ho avuto occasione di esplorare il tetto in occasione del suo consolidamento dopo il terremoto del 1984 e le numerose tegole che portano la data 1626 confermano la tradizione orale che ai primi del XVII secolo sarebbero state realizzate le opere più significative: lo scalone che si apre sulla corte interna, il luminoso loggiato posizionato, secondo la tradizione, ad occidente per godere delle ultime ore del sole, la deliziosa loggetta a colonnine circolari che si appoggiò sulla parte mozzata della torre-rondella esterna.

Il feudo poi passò ai Garcìa, ai Rotondi ed infine ai d’Alena fino all’eversione della feudalità. Nel 1740, dovendosi procedere alla vendita del feudo, fu chiamato il tavolario Luca Vecchione che il 2 marzo di quell’anno compilò la relazione finale descrivendo tutti i beni e le rendite della terra di Macchia. Così riferisce sul Palazzo Baronale: Stà sito, e posto nella parte più superiore della Terra, ed abitato di Macchia, attaccato alla porta di detta Terra verso la volta di Libeccio, detta la porta di monte, et entrandosi per detta porta nella Terra immediatamente si ritrova la salita nel Palazzo Baronale, che torreggia tutta la Terra, ed abitazioni della medesima. Mercé la mentovata salita, ch’é lastricata di pietra del paese, con cordoni di pietra simile, e pattovata con ginella dell’istessa pietra viva, e nel suo fine vi è il balladoro, eziandio di pietra di taglio con pozzi per due lati. Segue la descrizione della parte interna, compresa la grande e comoda sala che permette di accedere ad una torre di cinque piani inclusivi quello a piano della sala sudetta, per cui si può ascoltare la messa nella chiesa. Questa piccola stanza ancora esiste ed è dotata di una finestra che sta proprio di fronte alla porta principale della chiesa. Così, effettivamente, tenendo contemporaneamente aperta la finestra della torre e la porta della chiesa, nonostante vi sia il vicolo di mezzo, il barone e sua moglie potevano assistere comodamente alle funzioni liturgiche senza scomodarsi ad attraversare la strada. Potenza del barone!

E Luca Vecchione descrive anche la chiesa di S. Nicola, patrono di Macchia: Consiste in una nave con sei altari, due alla destra e quattro alla sinistra … Vi è ancora il standardo colla sua statua di rilievo al naturale, che processionalmente si trasporta in tempo della sua festività per la Terra, et oltre a ciò in tutte le altre festività, che si celebrano in detta Terra, come sarebbe quella della SS.ma Trinità, Corpo di Cristo, S. Maria di Loreto, S. Rocco, S. Biagio, et il giorno dell’Assunta. Una chiesa dalle origini antiche che certamente esisteva già nel 1182 perché, da una concessione che Papa Lucio III faceva al vescovo Rainaldo, sappiamo che era in Maccla plebem S. Nicolai. Ma la cosa più originale di Macchia si trovava alla taverna che nel periodo romano accoglieva i viandanti. Qui vi era una insegna latina che raccontava del colloquio tra l’oste e Calidio Erotico che chiede il conto: Il vino: gratis – Mi sta bene! Il pane: un asse – Mi sta bene! La “puella”: otto assi – Mi sta bene! Il foraggio per il mulo: due assi – Questo mulo mi porterà alla rovina! (… ISTE MULUS ME AD FACTUM DABIT!). Oggi per leggere questa epigrafe bisogna andare a Parigi, dove è stata trafugata da un secolo per essere esposta al Louvre.