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Pesche
Ogni volta che trovate scritto su una mappa catastale pescheto, scartate immediatamente l’ipotesi che si tratti di un terreno destinato alla coltivazione di pesche o che nelle vicinanze vi sia una vasca per pescare. Se vi recate sul posto, state certi, troverete una terra con una grande quantità di pietre di belle dimensioni. Pesco, infatti, vuol dire grande masso. Quando costituisce la base del nome di un paese si può esser certi che la parte importante di quell’insediamento è poggiata su una grande roccia. Cosi è anche per Pesche, tutta concentrata una volta attorno ad uno spuntone di roccia che, almeno dall’epoca longobarda, era sovrastato da un castello. Così, infatti, il Galanti: Pesclum ne’ secoli barbari dinotava pietra, macigno. Oggidì nel Contado di Molise è usitatissima la parola pesco o pescone in significato di gran pietra informe.
Importanti appaiono, per la storia amministrativa della regione, le iniziative di Rodolfo, conte di Boiano, che alla metà dell’XI secolo dette inizio alla costituzione del Comitatus Molisii all’interno del quale vennero unitariamente riorganizzate, anche dai successori, tutte le polverizzate micro-contee longobarde e che costituirono l’impianto dell’attuale assetto regionale. Da una donazione di Rodolfo II a favore di Montecassino abbiamo così la certezza che l’abitato di Valneo, l’attuale Pesche, nel 1092 era già fortificato e difeso da un castello.
Ma la presenza di un monastero in Pesche, dedicato alla S. Croce e dipendente da Montecassino alla metà dell’XI secolo, è garantito dal pannello di bronzo delle porte costantinopolitane che l’abate Desiderio fece porre all’ingresso della basilica che egli costruì e consacrò nel 1070: Sancte Crucis Isernie. Nel tempo la basilica benedettina ha cambiato più volte titolo, come ricorda la grande lapide che è posta sul suo bel portale settecentesco. Una lunga epigrafe dell’arciprete Silvestro Biondi attesta l’origine benedettina del complesso che una volta era il monastero di S. Croce e che ancora prima era dedicato al culto di S. Michele Arcangelo. Poi fu dedicata alla Madonna del Rosario senza rinunciare alla protezione di S. Benedetto e S. Scolastica. In ogni punto, dentro e fuori, appare il nome dell’arciprete Biondi che lasciò detto ai posteri che i lavori, compreso il grande armadio della sagrestia (1759), si erano fatti per la prodigalità dei fedeli: PIIS SUMPTIBUS. L’impianto della chiesa è a due navate ma c’é chi giura che una terza navata è stata murata, sulla destra, ed era la prosecuzione del Cappellone che è dedicato alla Madonna Regina, la cui immagine lignea è tra le più belle della regione anche se pesanti strati di vernice ne hanno nascosto nel tempo le linee originali.
L’interno della chiesa è bello e, insieme al solito coro ligneo (piccolo ma ben lavorato, nascosto dietro l’altare maggiore) conserva pregevoli altari laterali con colonne in marmi dai colori caldi che sono tutti del 1749. Sono dedicati a vari santi come S. Antonio, S. Francesco, S. Lucia, ma le statue più belle sono quella di S. Nicola del 1893 (anche se una mano ignota ha rubato i tre bimbi nell’otre) e quella di S. Giuseppe del 1898.
Uscendo dalla chiesa si apprezza ancora di più la scenografica scalinata settecentesca che nel tempo ha risolto i notevoli problemi di differenza di quota permettendo ai fedeli di muoversi in processione per guadagnare indulgenze nel girare attorno alla croce stazionaria. Oggi questa è imprigionata assurdamente da un moderno sistema di cancellate e di muretti che l’hanno ridotta ad un anonimo elemento di arredo urbano. La croce, dai bracci con terminazioni trilobate, è assolutamente liscia e la sua base reca semplicemente la data 1736.
Da questo punto, seguendo un’erta salita, si arriva alla fontana pubblica, dal prospetto neoclassico, la cui utilità è ricordata dalla vistosa lapide: DOM . A quest’opera di singolare utilità, per balze scoscese, tracciata mercé il pubblico erario, il sindaco Clementino Salvucci, con lodevole zelo, si mosse nel 1853.
Salendo ancora, superata una delle porte della parte alte del nucleo più antico, si raggiunge una piazzetta che domina la sottostante piana, fino ad Isernia. La particolarità di questo slargo è la serie di croci stazionarie che fanno da griglia visiva. Ne sono cinque, tutte diverse tra loro, poggianti su esili steli di pietra. Nessuna data ci permette di fissare l’epoca della loro realizzazione. La prima, dai bracci a terminazione di picche, presenta sulla faccia un calice sormontato da un cuore fiammeggiante e due iniziali VN/VC. Della seconda sopravvive solo l’asse verticale. La terza, l’unica su colonna circolare di provenienza romana, ha i bracci come la prima. Vi si vede il Cristo crocifisso con le braccia a Y con il sottostante cranio di Adamo. La quarta è la più semplice perché non ha alcun segno e le terminazioni dei bracci sono a punta. La quinta ha le terminazioni trilobate (su cui sono incise le iniziali VC/VM) con l’asse verticale che si allarga in forma quasi piramidale. Credo che una volta esse fossero singolarmente collocate davanti alle varie chiese scomparse di Pesche e poi siano state opportunamente raccolte in questo luogo. Continuando a salire si raggiunge la parte più arroccata del paese, dove sopravvivono i ruderi dell’antico castello, assaliti da una vegetazione contro la quale si battono inutilmente coloro che lo vedrebbero piacevolmente restaurato.
Qui degli antichi feudatari non è rimasto più nulla. Solo la memoria epigrafica. Il feudo di Pesche nel Trecento fu dei di Sangro, discendenti dei terribili Borrello di Pietrabbondante. Poi appartenne all’università di Isernia forse fino alla fine del XVI secolo, quando si vede appartenere agli Spinelli che lo cedettero nel 1610 ai de Regina che lo tennero per poco tempo. Ultimi feudatari furono i Ceva-Grimaldi che ne godettero le rendite fino all’eversione della feudalità.
Fuori dell’abitato, dove comincia la pianura, in una località che forse era un balneo romano per la presenza di edifici termali, vi è il santuario di S. Maria del Bagno, che in origine aveva dato il nome all’intero paese. Non ha nulla di particolare se non una bella pietra sepolcrale romana, applicata sulla facciata, con due delfini che giocano nell’acqua e che ricordano quelli più famosi sistemati nella parte centrale della Fontana Fraterna di Isernia.