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Rionero Sannitico

Quando a Rionero Sannitico piove, una parte dell’acqua che cade sul paese finisce nel Tirreno e un’altra parte va nell’Adriatico. Il punto di separazione dei due versanti si trova esattamente davanti alla chiesa di S. Bartolomeo e più precisamente dove si trova collocata una delle pandette più antiche della regione per essere del 1691. Regolava il passo di Rionero e su di essa erano riportate le tariffe da applicarsi a chiunque avesse avuto necessità di transitare per quel luogo. Oggi l’epigrafe è ridotta a sedile e per leggerla bisogna scomodare qualcuno degli abituali utilizzatori della pietra che, peraltro, in parte è interrata: PASSO CHE S’ESIGE PER / LA BARONIA DI RIO NIGRO / CONCESSO EX CA.VS / P(er) OGNE SOMA GRANA TRE / P(er) SOMA MENORE AN.LE BA / CINE . CAVALLINO . BVFA° . SOMA / PIV DI VNO CARLINO L’VNO Q(uan)DO / SONO PER MERCANTIAPER OGNE ANIM(ale) / MINVTO DI MERCANTIA P(er) RC° GRA / NO PECVRINO VNO GRANO P(er) O(gn)I / PECVRA LANUTA VN GRANO / DAT. NEAP.EX R. CAM. SVM / DIE25°M.s Sbris 1691 / UDIT FISCVS DON SEBASTIA. COTES / L.M.C.L. / ANDREA CVEBRERO. Dall’altra parte della strada il piccolo monumento ad Eugenio Frate è opera di Gino Buccini.

Di Rionero abbiamo notizie sicure almeno dal 1039 quando, subito dopo la morte dell’imperatore Corrado, fu usurpata dai Borrello che in quell’occasione, come racconta la Cronaca del Monastero di S. Vincenzo, si dimostrarono di una ferocia che non si vedeva dal tempo dell’eccidio saraceno dell’881. Nel 1045 fu restituito insieme agli altri nuclei che ugualmente erano stati usurpati ai monaci finché, durante il dominio normanno, fu data in feudo ad alcuni signori del luogo e alla metà del XII secolo a Oderisio de Rigo Nigro che lo tenne insieme ad una parte di Montenero, Fara e Civitavecchia che complessivamente valevano una rendita che lo obbligava a sostenere due militi nell’esercito. Oderisio teneva anche i feudi di Collalto e Castiglione che oggi sono frazioni poco abitate di Rionero, mentre Montalto apparteneva in quel tempo a Berardo figlio di Ottone.

Dopo aver fatto parte delle terre di S. Vincenzo nulla si conosce dei primi feudatari non ecclesiastici. Dal XIV secolo fu concesso ai Carafa. Sicuramente già dal 1381 Andrea l’ebbe in possesso con altri paesi del circondario ed ai Carafa sono da attribuire le opere più significative fatte nel tempo. Di loro (anche se per un periodo Rionero appartenne rispettivamente ai di Sangro, ai Loffredo e ai Montaquila) è rimasta vistosa traccia non solo in monumenti sepolcrali, ma anche in opere di completamento delle chiese più importanti nel XVII e XVIII secolo. Al duca Alfonso è attribuita, intorno alla metà del Seicento, la costruzione della piccola chiesa di S. Antonio di Padova nelle vicinanze dell’antico Castello, poi trasformato in palazzo baronale. Al suo interno, come ricorda la lapide obituaria, egli volle che venisse seppellito insieme a sua moglie Beatrice Bucca d’Aragona: … quorum hic requiescant cineres, primus A. D. 1668 – 7 sept., secun A. D. 1669 – 7 iul. Di un’altra chiesa, la Madonna del Carmine, rimangono i ruderi sulla strada principale del paese ed è un peccato che nulla venga fatto per restaurare una così bella opera di architettura, tutta in pietra viva, divenuta ricettacolo di immondizia. Un’altra chiesa, sempre nell’area del nuovo centro urbano, è quella dedicata alla Trinità ed il Masciotta ne apprezza il suo interno per l’altare di finissimi marmi, per l’organo di vecchia data e una pianeta liturgica di accurato lavoro di trapunto. Io non vi ho trovato nulla di tutto questo.

I santi patroni di Rionero sono Mariano e Giacomo che, secondo la tradizione, sarebbero stati martirizzati in Africa al tempo di Valeriano nel III secolo, ma la chiesa principale è dedicata a S. Bartolomeo Apostolo. E’ una chiesa che ha tutto l’esterno in bella pietra squadrata a vista anche se l’interno è interamente intonacato e decorato da stucchi barocchi. E’ una chiesa dall’interno molto particolare e chi la fece non fu un banale muratore a cui erano sconosciute le regole dell’architettura e del concetto di spazio. Apparentemente è semplicemente una chiesa a tre navate, ma a ben considerarla ci si accorge che l’impianto segue il criterio antico dei deambulatori perché le navate laterali sono piuttosto strette. La soluzione architettonica, con colonne apparentemente giganti rispetto alle necessità statiche, porta a considerare che spazialmente la chiesa non è ciò che nella realtà planimetrica di fatto é. Se ci si pone di lato e si osserva in diagonale l’ambiente interno si scopre una profondità che è degna della firma di un geniale architetto che pur avendo poco volume a disposizione volle creare l’illusione di un grande spazio.

E in una architettura del genere non poteva essere assente un altare importante. Lo conferma un accurato esame fatto da Vittorio Casale, il massimo degli studiosi dei marmi di Abruzzo e di Molise, che ne attribuì la realizzazione a Norberto di Cicco, famoso marmoraro di Pescocostanzo, con sostanziali reminiscenze derivate da una precisa conoscenza napoletana dell’opera di Cosimo Fanzago. La vistosa epigrafe sulla balaustra monumentale riconduce l’opera al 1727: AD MAJOREM DEI GLORIAM ADQ. MAJUS HUIUS SACRATI TEMPLI DECUS OPUS HOC CONSTRUCTUM FUIT / AD MDCCXXVII PIIS SUMPTIBUS EXC.MID.MNI D. ANTONII CARAFA E MONTISNIGRI DUCIBUS. Dappertutto lo stemma dei Carafa della Spina, ma quello sotto l’altare barocco che si trova nell’attuale sagrestia, essendo abbinato a quello dei Bucca, ci aiuta a ricondurre la sua realizzazione alla metà del XVII secolo, ovvero all’epoca dei già richiamati Alfonso Carafa e Beatrice Bucca. Nella chiesa un bel quadro della Madonna del Rosario con S. Domenico e S. Caterina da Siena circondati dai quindici tondi dei misteri. Una statua di S. Amico ricorda il santo della vicina S. Pietro Avellana. Due altari di ottima fattura chiudono il fronte delle pseudo-navate: quello di sinistra dedicato al Sacramento, quello di destra alle anime purganti.

Uscendo da Rionero, verso Isernia, si passa sopra la Fonte Litiera. Non sono riuscito a capire il significato del nome, ma una epigrafe vicino ad un abraso fascio littorio ricorda che fu fatta con contributo pubblico oltre il braccio del popolo.