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Sant’Elena Sannita

La prima volta che, parecchi anni fa, andai a S. Elena, fu per un funerale. Era una grigia giornata invernale e rimasi impressionato nel vedere che, nella folla silenziosa che seguiva il feretro, le donne anziane del posto, nel loro caratteristico modo di vestire con panno pesante ed il fazzoletto in testa, procedevano tutte accentuando uncedimento sulla gamba destra. Come se zoppicassero. E’ la conseguenza di una vita passata nel duro lavoro di dissodamento della terra con il bidente per piantare e raccogliere patate. Dopo sono tornato a S. Elenavolando con un elicottero e così facilmente ne ho capito la struttura urbana con l’antico castello che fa da testata ad un nucleo che si è sviluppato nel tempo seguendo naturalmente un crinale. Dall’altra parte vi è la chiesa madre che per essere dedicata a S. Michele Arcangelo fa immaginare un’origine almeno longobarda. Nei fatti la notizia più antica è della metà del XII secolo, perché dal catalogo dei baroni normanni risulta che un certo Ugo de Camelo teneva in feudo Camelum in quell’epoca. Cameli si chiamava anticamente il paese, ma nel 1896 il Consiglio Comunale ritenne che quel termine fosse poco onorevole e decise di intitolare il Comune a S. Elena, in onore della moglie di Sua Maestà. Sono tornato ancora una volta a S. Elena e mi sono fatto accompagnare da Peppino D’Abate e Filippo Ricci per ritrovare le chiavi delle chiese che nel periodo invernale in genere sono chiuse. La piazza della chiesa di S. Michele è particolare non solo per la scenografica scalinata che anticipa la facciata settecentesca, ma anche per l’inconsueta chiesa laterale, ad un livello un po’ più basso.

L’interno è arioso ed è illuminato naturalmente quanto basta per dare una calda sensazione di protezione sotto la vigilanza di S. Antonio Abate con il bastone ed il campanello, di S. Lucia con gli occhi sul piattino, S. Filippo Neri con il cuore fiammeggiante, della Madonna Incoronata appollaiata sul tradizionale albero, di S. Biagio che guarisce un bambino, della Madonna del Carmine sulle nuvole e di S. Emidio che protegge dai terremoti. E più dentro S. Rocco, che protegge dalla peste, a lato di una complessa Assunzione di Maria Vergine tra gli angeli.

Seguendo i santi si entra lateralmente in un altro ambiente dove si conservano le macchine processionali con le scenografiche rappresentazioni delle tribolazioni di S. Filomena. Una cruda e realistica rappresentazione degli episodi di tentato martirio della leggendaria santa fino alla definitiva decollazione.

Per entrare nella chiesa laterale dobbiamo andare a chiedere la chiave alla signora Angelina che abita nella casa liberty che è di fronte. Un edificio che ancora ospita un’attività commerciale che, come esplicitamente racconta la grande insegna murale, apparteneva alla famiglia del marito: Prodotti ditta fratelli Terriaca. Coltelleria. Posateria. Ferramenta. Chincaglieria. Ci impone di entrare nel salotto perché vuole offrire il caffè e così scopro che la sua poltrona è strategicamente posta in maniera da permettere un costante e comodo controllo visivo dell’ingresso della Chiesa che è di fronte. La signora Angelina ha 88 anni, ma ne dimostra almeno venti di meno. E’ contenta che ho notato l’artifizio della poltrona e ci offre uno splendido punch fatto da lei. Anzi ne offre prima uno di un colore chiaro scusandosi se il caramello non è particolarmente consistente. Poi, dopo un attimo di pentimento, ritorna in cucina per riapparire con una bottiglia che contiene non più di un dito dipunch dal colore scurissimo. Ci rendiamo conto che la questione è seria e ne versiamo quanto basta per verificare che è un nettare divino. E’ vero. Il caramello ha il sapore amarognolo che deve avere per compensare il dolce banale del punch. Un condensato di storia e di sapori che solo una maestra può farti apprezzare. Andiamo finalmente alla Chiesa. Altri santi all’interno. Ma l’opera d’arte che attira l’attenzione campeggia al centro della volta. Una bella deposizione firmata nel 1907 da Arnaldo De Lisio, il maggiore degli artisti molisani a cavallo dei due secoli passati.

Camminando per il corso arriviamo alla Piazza del Tiglio. Qui si affaccia il Castello poi diventato palazzo baronale che fu anche della famiglia di Capua, come rimane attestato dai brandelli di uno stemma che ornava l’androne. Una bella scala, articolata in tese simmetriche, occupa quasi tutto il cortile ormai stravolto da una serie di superfetazioni cementizie che dell’antico castello hanno cancellato quasi ogni traccia. E’ così ancheper l’esterno dove sopravvive il bel portale settecentesco della chiesa palatina della Madonna del Carmine.

Più avanti, ormai fuori delle cinta muraria, è la bella Madonna delle Grazie, che fu casa e chiesa di Mario De Tollis, artista autodidatta di S. Elena. Questi, facendo anche l’organista, la considerò come fosse la sua Gerusalemme terrena e l’arricchì con le rappresentazioni delle vite dei Santi. Una bella chiesa a tre navate con una critta (come dice la lapide nell’altare sotterraneo) dove il parroco rinnova la tradizione del presepe in una di tricora scavata da tempo immemorabile nella roccia.

Andare a S. Elena d’inverno significa capire cosa sia l’emigrazione. Un paese in cui la grande quantità di case prive di abitanti fa immaginare l’importanza che ha avuto nel passato. Molti partirono con una bicicletta tutta particolare per avere un ingegnoso sistema che permetteva di agganciare alla ruota dentata una catena collegata alla smeriglia posta sulla parte posteriore. Una sella girevole ed un treppiede trasformava la bicicletta in un laboratorio ambulante attrezzato per affilare forbici e coltelli nei punti più disparati di Italia. Alcuni si fermarono a Roma dove cominciarono anche a vendere coltelli, rasoi e forbici. Gran parte dei loro clienti erano barbieri e così, insieme agli attrezzi, i santelenesi pensarono bene di smerciare anche profumi. Dalla semplice vendita si passò alla produzione e oggi S. Elena vanta un numero incredibile di suoi figli che sono rinomati profumieri a Roma e nel mondo.